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Storia, Uomini e luoghi

FONDOVITO: QUARTIERE DI SAN MICHELE

Fondovito, uno dei quartiere più antichi di Gravina, è situato a sud-ovest del centro storico gravinese. Si costituì tra V e VI secolo dopo Cristo nella lama che mutuò il nome dalla chiesa rupestre dedicata a San Vito, che si trovava nella parte più bassa del complesso rupestre a sud-est della kenyon della “Gravina”. Esso, chiuso nella fortificazione naturale ed artificiale si estendeva da sud-est sino al contrafforte della rocca, aveva una fenditura centrale, dove precipitava l'acqua del braccio sinistro della lama e torrente “Casale-Dalonzo”; era servito dalle vie non carrozzabili : Vico San Bartolomeo, Via Dirimpetto all'Appennino, Vico dei Caprini; completavano la viabilità piccoli sentieri, strettoie e scalini di collegamento tra grotte e abitazioni. Era un quartiere soleggiato ed asciutto, ricco di vegetazione naturale e artificiale, che lo abbelliva e lo rendeva poco percorribile in alcuni punti.

Fu popolato dai Silvini del colle Botromagno al tempo delle razzie vandaliche (456-553). Ebbe il suo momentofavorevole,perché ogni cavità naturale fu occupata.  Le chiese  di S. Stefano, di San Nicola, S. Vito, di San Michele, San Marco e quella dell'eremita, dedicata a San Giovanni Battista, furono i luoghi di culto che attirarono e indussero a risiedere uomini nomadi della vallata, e immigrati venuti al seguito dei nuovi conquistatori.  La cripta-chiesa di S. Mi­chele, forse di origine protocristiana.fu l'epicentro della loro vita religiosa. L'insediamento si ampliò, col tempo, con strade, scalinate, pozzi, magazzini.Le grotte acquistarono volto di case piccole, strette, ma più conve­nienti al vivere umano.

Era abitato da figuli e pellai. Quest'ultimi fondarono la Confraternita di San Bartolomeo, presso l'omonima chiesa e ospedale, creata per la cura di malati inguaribili e fiduciosi di essere miracolati da San Michele Arcangelo, il cui culto era nella chiesa grotta prospiciente. Quest'ultima divenne il fulcro del primo rione in espansione  ed il centro di attrazione di cittadini e pellegrini-turisti che puntualmente l'8 maggio ed il 29 settembre si recavano in pellegrinaggio di preghiera e penitenza per implorare perdono e grazie all'Arcangelo Michele. Le ricorrenze delle apparizioni determinarono un gran movimento di popolo ed una gran festa di quartiere, perché l'Arcangelo era, ed è, il santo protettore di eserciti, principi ed imperatori, ma è stato, sostanzialmente, il custode di contadini, pastori, e la dignità tutelare, nei momenti di calamità naturali, di quella gente misera che abitava i dirupi.

Le abitazioni di questo quartiere, sviluppatosi tra il V e X secolo d. C., erano in grotte naturali ed artificiali,  ma anche case edificate con tufi ricavati in loco. La maggior parte dell'abitato era addossato alla rocca della Civita e si estendeva da ovest verso est, salendo dal basso verso l'alto presso la porta Basilicata.

La chiesa di San Giovanni Battista e la successiva realizzazione del monastero degli Agostiniani determinarono uno richiamo di abitanti e, quindi, ampliamenti dei fabbricati esistenti e costruzione di nuovi edifici.

Nel 1861 l'Università di Gravina si dotò del Piano Regolatore Generale e per questo fu deciso il miglioramento del quartiere. Infatti fu coperto il braccio del torrente, si consentirono ampliamenti urbanistici  al centro della lama, fu sistemata l'intera viabilità.

Il quartiere ha conosciuto lo spopolamento parziale in seguito alle emigrazioni e alle assegnazioni di case popolari. Oggi si tende, timidamente, a ritornare alle proprie radici, però con una distorta mentalità del recupero delcen­tro storico.

Questo rione, a differenza del Piaggio, risulta più pulito e ben tenuto dai 270 (circa) resdenti che dimorano con piacere,perché lo ritengono un'oasi dipace e luogo protetto da San Michele Arcangelo, che gli antichi abitanti  accolsero ed incentivarono il culto, attestato durante la festa dell’8 maggio di ogni anno. 

Gravina 2 maggio 2016                                     Fedele  RAGUSO

 

 

 

 

“MACCONECCIO” scacciare maligno

I longobardi importarono nelle comunità italiche tutte le loro consuetudini profane e religiose. Quest’ultime assunsero vesti cristiane dopo la conversione al Cristianesimo e, ancor più, dopo l’adozione del culto di San Michele del Gargano. Ai pii longobardi, infatti, si devono diverse consuetudini, tra cui quella dell’uso dei “brandea – reliquie personali”, dei “ballunǝ - ostensori di reliquie”,  dei “macconecci - scaccia maligno”.

Gli abitanti della “contrada (rione) Fondovito” subirono la sovranità dei signori Longobardi sin dal IX secolo d. C. che avevano prediletto il sito gravinese e realizzarono un poderoso castello sulla piana della rocca che sovrastava le lame di “Piaggio” e “Fondovito”, già antropizzate intensamente  (tra III – IV secolo dopo Cristo), grazie alle tante cavità carsiche naturali esistenti. I  Longobardi si guadagnarono subito le simpatie e collaborazioni degli abitanti indigeni che apprezzarono e gradirono la costruzione del castello che li proteggeva, sposarono il culto di San Michele,  assecondarono gli interessi particolari per salvaguardare e incentivare le risorse territoriali.

Gli abitanti della città rupestre, che prese il nome “Gravina”, costituiva una comunità agro-pastorale e viveva esclusivamente di prodotti dell’agricoltura e degli allevamenti, oltre che da attività artigianali e di trasformazione connesse alle attività primarie.

La loro alimentazione era assicurata dalle farine di cereali, granturco, e, persino di ghiande e castagne, con cui realizzavano polenta ed impasti che cucinavano in acqua bollente, sul fuoco o in forno. Quei prodotti erano la loro vita, il frutto del loro duro lavoro e dei loro sacrifici.

San Michele Arcangelo aveva sostituito il culto della dea Cerere, divenendo il protettore principale dei contadini e delle loro coltivazioni. Preghiere, novene, processioni di penitenza, riti sacri in suo onore non erano sufficienti per tenere lontano il nemico (demonio) che si presentava come grandine, gelate, siccità, incendi. Il maligno si annidava tra e dentro i campi pregni di frutti da raccogliere. Per cui bisognava cacciarlo con azione umana diretta. Infatti, nei giorni di vigilia delle ricorrenze festive di San Michele 8 maggio e 29 settembre,  all’ora dell’Avemaria della sera, agricoltori,  pastori e buona parte della popolazione rurale si recavano nei campi per cacciare, secondo le loro usanze, le streghe e le incantatrici. Solevano suonare campane, campanelli, cembali, timpani, tamburi di rame, ed ogni oggetto rumoroso, urlando a squarciagola come forsennati la parola “macconneccio”, a “voler dire vai via maligno e lascia immune la “polenta (macco), i frutti (neccio)”. Con quel fiero baccano e con quelle voci e sicuri del sostegno di San Michele, speravano di mettere al sicuro da qualsiasi stregoneria i due cibi che formavano il loro nutrimento.

Questa particolare ed antichissima usanza, anche, gravinese si è persa nel corso dei secoli ma si è tramandata, per via orale,  di anziani agricoltori e pastori. Sopravvive presso alcune comunità delle Alpi Apuane delle province di Lucca e Massa Carrara.

 

Gravina 25 aprile 2016                                      Fedele RAGUSO

 

 

LA CONFRATERNITA DI SAN MICHELE DELLE GROTTE

Il culto di “San Michele delle Grotte” del rione “Fondovito” di Gravina,  filiazione da quello di Monte Sant’Angelo, deve la sua istituzione ai Longobardi sin dal IX secolo dopo Cristo, che sollecitarono i Gravinesi a farsi devoti pellegrini al santuario di San Michele del Gargano.  Successivamente il culto fu salvaguardato e incentivato da pastori nomadi della transumanza e dai pellegrini che transitavano da Gravina per poi dirigersi a Gerusalemme. Quella eredità fu accolta dagli abitanti del quartiere “Fondovito” che ne hanno conservato culto, devozione e festeggiamenti sino alla istituzione della Confraternita di san Michele (1925), che divenne protettrice e patrocinatrice del culto e della festa dell’8 maggio.

Quest’anno il Comitato della Festa, costituito dai confratelli micaelici, hanno deliberato con il consenso del vescovo, monsignor Giovanni Ricchiuti, dei canonici del Capitolo della cattedrale, di don Michele Capodiferro, padre spirituale di allungare i festeggiamenti dal 7 maggio (vigilia) all’8 maggio festa solenne con celebrazioni di messe, processione con la statua del santo, omaggio del Capitolo a san Michele, festeggiamenti civili con concerti bandistici, fuochi pirotecnici, addobbo del quartiere con i “Balloni-Brandea” di antichissima consuetudine, mercatini.

Nel 1925, alcuni pii devoti di San Michele Arcangelo, rafforzarono e incentivarono il culto con radici antichissime, determinate da particolari eventi calamitosi naturali e storici vanificati dalla protezione dell’Arcangelo, a cui avevano implorato aiuto gli abitanti di Gravina in gravi pericoli.

Sin dalla iniziale diffusione del culto si costituirono gruppi di devoti, che puntualmente si recavano a Monte Sant’Angelo l’8 maggio ed il 29 settembre per chiedere una costante protezione e grazie al Santo.  In alcuni luoghi nacquero aggregazioni con regolamenti ed impegni da osservare in occasione dei pellegrinaggi o delle processioni di penitenza per invocare l’intervento di S. Michele al fine di scongiurare la persistenza delle calamità.

Quando si verificavano terremoti violenti, pestilenze, carestie, e i danni erano minimi o inesistenti si attribuiva l’intervento protettivo ad un Santo. San Michele deteneva sempre il primato  delle protezioni, specialmente, nel Sud d’Italia. Infatti, il 1688 fu eletto patrono e protettore di tutto il Regno di Napoli, perché il terremoto del 5 giugno non aveva provocato danni di rilievo. In seguito fu anche riconosciuto Etnarca d’Italia.  Nel 1841, per volontà del re di Napoli e con l’assenso papale, la festa dell’8 maggio fu riconosciuta di doppio precetto. Questi atti e riconoscimenti delle autorità, accompagnati dall’esistente devozione e stimolata dall’azione della Chiesa, indussero gruppi di laici a costituire confraternite dedicate a S. Michele e, dove fu possibile, si trovarono luoghi e si costruirono chiese da dedicare al Santo, si istituirono benefici, si realizzarono cappelle in quasi tutte le chiese, a partire da quelle cattedrali, si costruirono cappelle presso i cimiteri per seppellire i devoti micaelici.

Tra il XVII e l’inizio del XX secolo, in Puglia, si registrano diverse confraternite di S. Michele: Altamura (sec. XVII); Bari (sec.XIX); Bisceglie (sec. XVIII); Bitonto (sec.XVIII); Carbonara (sec.XX); Ceglie del Campo (sec. XX); Celenza Valfortore (sec. XVIII); Francavilla (sec.XVII); Giovinazzo (sec. XIX); Gravina (sec. XX - 1925); Lucera (sec. XX); Minervino Murge (sec. XVII); Monopoli (sec. XVIII); Noci (sec. XVIII); Oria (sec. XVIII); Palese (sec. XX); San Michele di Bari (sec. XVIII); Sant’Agata di Puglia (sec. XIX); Taranto (sec. XX); Trepuzzi (LE) (sec. XIX).

La confraternita di Gravina, al pari di tutte le altre, assunse particolare significato, perché incrementò la devozione ed avvicinò a S. Michele famiglie e uomini che furono uniti da vincoli spirituali con azioni di mutuo soccorso, alquanto socializzanti.

Essa nacque seguendo lo stesso rito di tutte le confraternite: alcuni cittadini stabilirono di divenire fratelli sotto la protezione di S. Michele, suoi particolari devoti, ed avviarono ogni azione per costituire il sodalizio. Seguì una assemblea di ben 70 devoti che deliberarono unanimemente di dar vita alla Confraternita. Il 25 marzo 1925, 40 laici chiesero al vescovo  pro tempore  Giovanni Maria Sanna,  di costituire la pia associazione sotto la protezione di S. Michele. Monsignor Sanna accolse la richiesta e con apposito decreto vescovile del 12 aprile 1925 riconobbe la istituzione legale della pia unione.

La Confraternita ebbe un’amministrazione provvisoria presieduta dal padre spirituale canonico Domenico Digiesi, primicerio del Capitolo cattedrale. L’investitura ufficiale della neoconfraternita avvenne proprio l’8 maggio 1925, giorno dedicato a S. Michele delle Grotte, a ricordo della prima apparizione del Santo al Gargano.

Lo statuto venne approvato il 31 maggio dello stesso anno e al capo secondo si colgono gli scopi salienti della pia unione: 1) risvegliare la pietà cristiana e il culto al protettore S. Michele Arcangelo; 2) prodigare reciproco vantaggio materiale e spirituale fra gli associati; 3) far dire messe e pregare per il suffragio delle anime degli associati.

I confratelli furono sottoposti anche ad un regolamento, stabilito dall’autorità ecclesiastica, che ne puntualizzò diritti e doveri. Essi, a norma dell’art. 14, debbono: istruirsi, se non ancora lo fossero, nei rudimenti della fede ed intervenire con ogni puntualità alle conferenze ed istruzioni che dovesse fare il padre spirituale; esercitare le virtù cristiane; fuggire il turpiloquio e la bestemmia; rispettare i superiori;  frequentare i Sacramenti; intervenire alla Santa Messa, alle funzioni ed alle processioni a cui la confraternita è obbligata  ... . Ancora oggi, tutti i confratelli hanno l’obbligo di partecipare in divisa alle seguenti manifestazioni in ordine e con massima dignità: processione della festa di S. Michele delle Grotte dell’8 maggio; processione del Corpus Domini; processione della festa patronale di S. Michele del 29 settembre; cortei funebri dei confratelli defunti; prestare onori all’arrivo di ogni nuovo vescovo. Inoltre bisognava  seguire le sacre funzioni la domenica ma soprattutto nelle ricorrenze su citate, partecipare al viatico della settimana Santa, al Triduo eucaristico e nella IV domenica di Quaresima, sera conclusiva, accompagnare in divisa il Santissimo, e all’Ottavario  dei defunti che si celebra in cattedrale. Inoltre, prestano particolare impegno la mattina dell’8 maggio, quando con il Capitolo cattedrale, in assetto da gran cerimonia, si recano in processione a rendere omaggio al Santo nella chiesa-grotta. A questo proposito, riferisce il priore  pro tempore,  Filippo Bartolomeo, che in occasione dell’ anno Santo 1950, monsignor Sanna ordinò che l’8 maggio, di quell’anno, venisse portata in processione la statua di S. Michele delle Grotte (in pietra del Garagano), cosa che avveniva solo in circostanze particolari.

La vestizione di ogni nuovo confratello si effettua la mattina dell’8 maggio  dopo la celebrazione della messa all’altare di S. Michele in cattedrale, con la benedizione della fascia d’investitura, che rende il neoconfratello protetto del Santo, obbediente ed osservante delle regole.

I fratelli di S. Michele giurano fratellanza in eterno e stabiliscono di essere uniti sotto la protezione del loro Santo anche dopo la morte, in un luogo comune di sepoltura, come tutte le altre confraternite. Per questo, il 20 settembre 1931 fu presentato all’assemblea ed approvato dai confratelli il progetto della cappella funeraria, redatto dall’ing. Lacalamita. Il gentilizio funebre fu realtà sin dal 1932, quando fu consacrato con l’altare centrale, su cui fu posto un quadro della Pietà, realizzato da Angelo Amodio, poi rubato. Nel 1973 fu realizzata una statua di S. Michele di terracotta, dai fratelli Loglisci, per essere posta sulla nicchia della cappella funeraria, dove ancora esiste.

E’ stata realizzata, per conto della confraternita, una guida tascabile per far conoscere le notizie storiche su Gravina, Fondovito, Santuario Grotta, Balloni, folclore ed eventi sulla festa; il tutto per facilitare i turisti ed i gravinesi circa la conoscenza del culto micaelico. La guida sarà possibile acquistarla presso il Comitato e la libreria Parrulli.

La confraternita odierna è costituita dal seguente gruppo dirigente: Don Michele Capodiferro (Padre spirituale); Riviello Francesco Paolo (Priore); Damiani Bruno (Vice Priore); Elia Pietro (I assistente); Trentadue Vito (Segretario); Capozza Donato (Cassiere). 

Gravina 25 aprile 2016                              Fedele RAGUSO

 

Il testo di cui sopra è stato stilato dagli storici Fedele RAGUSO e Marisa D’AGOSTINO con l’ausilio delle fonti. Gli autori si riservano tutti i diritti, con il divieto assoluto di ogni riproduzione ed uso arbitrario.

 

 

“BALLUNƏ” E “BRANDEA” A FONDOVITO

Il dies festus Sancti Michaeli, dell’8 maggio, iniziò nell’idonea spelonca di Fondovito, dove i Longobardi ubicarono il culto del Gargano ed innestarono la festa che fu ereditata e tramandata dai “Fondovitiani”. Questi aggiunsero alla consuetudine del rito e manifestazioni religiose anche la nota etno-folcloristica, rappresentata dalla esposizione dei “ballunə e brandea” (singolare “ballounə”), lungo le scalinate che conducono alla grotta santuario.

 “Ballunə e brandea”, insieme costituiscono reliquie sacre portatrici di protezione e grazie del santo da cui provengono, permettono contatto, dialogo allegorico- metaforico tra San Michele e pellegrini.

Il termine dialettale Ballounə” degli antichi  Fondovitiani è da considerare un antico (gallicismo: inglese, germanico-francese “balloon”) con la funzione semanticadi “oggetto rigonfio a forma tondeggiante o rettangolare con espressività o comunicazione particolarmente importante in rapporto all'impiego che ne fa l’artefice”. Esso contribuisce, in modo determinante, a dar forza comunicativa e comprensione di un messaggio speciale. Si è accertato che trova familiarità ed origine nel “filatterio”: una delle strisce di pergamena (in ebraico tĕfillīn, «preghiere») recanti passi del Pentateuco, che gli ebrei portano chiuse in capsule di cuoio e legate con cinghie al braccio sinistro e al capo durante la preghiera mattutina feriale. L’uso trae origine dall’interpretazione letterale della raccomandazione biblica (Esodo 13, 9 e 16; Deuteronomio 6, 8; 11, 18) di legare le parole divine come segno sul braccio e ricordo tra gli occhi. Allo stesso modo i “Ballunə”di Fondovito costituiscono segni e voce di  “Quis ut Deus” (dell’Arcangelo Michele) e di Dio stesso. 

Nell’accezione moderna il “balloon” è dialogo, pensiero, grido, sussurro. Il “Ballounə” gravinese è allegoria o metafora del devoto pellegrino che dialoga con San Michele, implorando perdono e aiuto e lo ringrazia per tutto quello che ha beneficiato e per ciò che elargisce ai pellegrini che si recano alla sua grotta-santuario di Gravina.

La voce “ballounə” fa coppia con “brandea” e dichiarano con evidenza che trattasi di oggetti ritenuti sacri e santificati dai pellegrini che si recavano alla caverna-grotta di San Michele del Gargano.

I brandea erano considerati, a tutti gli effetti, vere e proprie reliquie, perché tutti i pellegrini bramavano possedere ad ogni costo un segno tangibile del proprio pellegrinaggio, un “pezzo” del luogo santo che con tanta fatica avevano raggiunto e nel quale si erano immersi fisicamente (Giorgio Massola, Pellegrini nel Medioevo. Camminare per devozione. Medagliette, stemmi, brandea e altro, in “Vita Casalese”… (25/6/2000) p. 9. 

Le reliquie dei primi cristiani (scrive Jonathan Sumpton in , Monaci santuari pellegrini. La religione nel Medioevo) non erano parti di corpi di santi, bensì semplici memento, oggetti che erano stati a contatto con il santo o la sua tomba. I pellegrini accostavano pezzi di stoffa o di carta alla tomba del santo e poi li consideravano reliquie del loro santo personale. I Romani erano soliti dividersi il sudario dei papi , tanto che la pratica durò sino al divieto fatto da papa Gregorio I. La gente comune, semplice ed ingenua riteneva quei pezzi di sudario (chiamati “brandea”) pari al corpo stesso del martire o del santo.

Gregorio di Tours (538 circa - 594) ci ha tramandato con chiarezza e semplicità  le modalità con cui i pellegrini conseguivano reliquie o brandea (fai da te). Egli scrisse: “ se si desidera portar via dalla tomba una reliquia, deve [il pellegrino] soppesare con cura un pezzo di stoffa e appenderlo all’interno della tomba. Poi pregare ardentemente e se la sua fede è abbastanza forte, la stoffa, una volta rimossa dalla tomba, si troverà ad essere così piena di grazia di Dio che sarà molto più pesante di prima».

Il pellegrino medioevale con il suo immaginario era convinto che il possesso o il contatto con oggetti provenienti dai luoghi santi producesse benefici materiali e spirituali insieme in qualche modo si è fissata ed è rimasta, quasi fossilizzata, tra le pieghe della moderna religiosità popolare. Don Vittorino Barale, sacerdote della Diocesi di Vercelli, ricordava e raccontava che da bambino, durante le sere trascorse nelle stalle, sentiva spesso narrare di una popolana di Pezzana che aveva fatto il giro delle chiese romane indossando contemporaneamente sette abiti, avuti da amiche che, non potendo partecipare di persona al pellegrinaggio, avevano pensato di far prendere un poco d’aria santa al loro guardaroba.

Nella mente del popolo di fine secolo XIX, la fede nei “brandea” era ancora radicata e sentita con profonda devozione e spiritualità.

L’antichissima festa di San Michele delle Grotte dell’8 maggio di Gravina si caratterizzava e si è caratterizzata con il rito religioso in onore del santo ma anche con la coreografia particolare ed unica dei “ballunǝ-brandea” sino agli anni ’70. La popolazione del quartiere sentiva quegli oggetti ondeggianti come presenza dell’Arcangelo svolazzante su di loro, e la loro profonda fede e convinzione la trasmettevano ai tanti pellegrini vicini e lontani che frequentavano il santuario del loro santo protettore.

Una anziana novantenne del rione Fondovito (intervistata nel 1973) affermò che i “ballunə ” erano costituiti, per lo più da roba che i pellegrini gravinesi, scambiavano con pii devoti, di Monte Sant’Angelo o indumenti portati da casa che rendevano reliquie con l’acqua e l’atmosfera sacra della grotta garganica. Erano reliquie confezionate nella grotta con il bagno nella sua acqua, con il contatto delle mura e della statua di San Michele, ritenuti segni tangibili del santo e del luogo santificato il 490 dall’Arcangelo Michele.

I “ballunə”, erano e sono costituiti da elementi principali: coperte, copriletti  di seta colorati con frange a ricamo e merletti particolari, lenzuola con ricami pregiati,  grandi scialli, grandi fazzoletti dai colori vivaci e particolari. Erano elementi costitutivi dei corredi posseduti dalle famiglie che si prodigavano per realizzare il migliore “ballounə” e sperare nella vincita del premio che si  metteva a concorso. Era una forma di santa ostentazione di povera-ricchezza, una gara fra tutte le famiglie, che si adoperavano per abbellire il quartiere, esercitando così una attrazione colorata, molto suggestiva e gioiosa. Gli elementi principali fanno da contenitori o supporto di elementi sacri detti “brandea”, vere e proprie reliquie.

Ogni contenitore principale viene steso o legato con corde benedette, che si legano ai balconi e finestre frontesanti per poter realizzare figurazioni a foggia diversificata per ostentare al meglio quanto si espone. Si realizzano: a baldacchino; farfalla; a cupola; a quadro.

Baldacchino:  il drappo (o altro elemento principale del ballounǝ) colorato viene legato ai quattro angoli con quattro corde tese, due per parte, a due finestre o balconi frontestanti, sospeso, di solito, ad un’altezza da terra di circa tre metri;

Farfalla: il panno è ripiegato su di un’unica corda, pur essa sempre sottesa ai due lati della strada, la cui parte centrale è sollevata con un fiocco, per costituire una forma di arcata di stoffa o farfalla sospesa a circa 3 nell’aria.

Cupola: la coperta o copriletto viene piegata in quattro e nello spigolo centrale si pone una pallina intorno a cui si stringe una corda che la sospende ad altra corda tesa tra due balconi opposti.  Una volta sistemata la coperta o altra stoffa si infilano cerchi con diametri differenti e si fissano ad essa tanto da formare una specie di cupola, dal cui interno pendono nastri, fozzoletti, indumenti consacrati a Monte Sant’Angelo;

Quadro: si realizza dove manca la possibilità di tendere corde di sostegno o supporto, per cui l’elemento principale viene steso e fissato sul parapetto del balcone dopo aver attaccato reliquie ed ex voto.

In tutte le tipologie realizzate, vengono appesi, cuciti o appuntati con spilli, vari capi ornamentali di vestiario femminile, quali fazzoletti colorati, scialli, sciarpe, velette, nastri e molti nastrini colorati detti “Ziaredde”, usati in passato per legare i capelli. Oltre a tali ornamenti di prammatica, troviamo regolarmente anche indumenti di neonati, o abiti bianchi da battesimo e da prima comu­nione delle bambine. Comunque, trattasi di oggetti consacrati come vere reliquie nella grotta di San Michele del Gargano.

La consuetudine dei “ballunǝ” si era quasi estinta con la morte o trasferimento delle anziane signore che l’avevano ereditata, mantenuta viva e tramandata. Per fortuna alcuni anni fa (2011-2013), la volontà di non dimenticare e la gioia di ripristinare quella particolare tradizione devozionale e folcloristica determinò l’entusiasmo di far rivivere al quartiere l’antica atmosfera creata da quegli addobbi speciali.

 

                                           Fedele RAGUSO

IL SINDACO NICOLA de VITO CONCLUDE LA FIERA SAN GIORGIO[1]

Io, Nicola de Vito, vassallo del re Carlo, sindaco dell’Università degli uomini e delle cose di Gravina, riprendo le chiavi e il potere amministrativo della città dalle mani di Uguetto, mastro di fiera, e dichiaro con soddisfazione che gli uomini di questa città hanno supportato felicemente la fiera di San Giorgio pel beneficio di tutti i partecipanti: cittadini, forestieri, mercanti florentani, campani, lucani, calabresi, abruzzesi, che hanno concluso buoni affari, lasciando ottimi guadagni all’Università di Gravina.

Uguetto, mastro di fiera, con l’auxilio di Francesco, suo camerlengo, con Antonio, camerlengo del conte, hanno esercitato per 8 iorni il solo et unico potere, come il diritto di vita e di morte contro gli uomini facinorosi, poteri concessi dal signor  conte con honori, prerogative, lucri, emolumenti, già esercitati dai loro predecessori.

Si sono elevate baracche in via dei mercanti et in plano delle some, nei borghi proximi con giusti diritti per il capitolo della cattedrale, per il conte, per l’Università senza tenzone alcuna di suolo e fitto.

Sono stati commissi i pretii concordati in comune accordo per ogni tipo di servizio e merce stabiliti, confirmando la fiducia del sovrano.

Congratulo meco per le bone stime, da cui proverrà tanta utilitate per il governo presente e futuro fino alla prossima mercatura per grazia divina e consenso regio.

Il marestallato ha procurato molto beneficio. Perrotto de Paca e i suoi massari hanno allevato numerosi cavalli, giumente, puledri. I migliori esemplari sono andati in Napoli per il regio esercito, tutti gli altri sono stati addotti in mercato per la bella parata e comparata con gli esemplari di località vicine.

Bonissima è stata la compra-vendita dei nostri cavalli pugliesi, nati nelle masserie della Curia e nelle altre masserie.

Con sommo gaudio, in questo momento, partecipo a voi tutti, cittadini, boni homines, ospiti forestieri, accorsi in questa piazza per la conclusione della fiera di San Giorgio, la felicissima chiusura di tutti gli affari mercantili, in specie quelli d’intesa con le compagnie dei Bardi e dei Peruzzi, mercanti florentani, espertissimi estimatori della nostra merce.

Tanto è il beneficio che ne proviene alla gente laboriosa di questa terra di Gravina!

Tutte le mercanzie più varie e minute, sono state acquistate con agevoli contrattazioni, senza screzi, senza esitazioni, sotto l’occhio vigile del mastro di fiera e socii.

Visitatori e mercanti hanno dimorato, negoziato e mercimoniato securamente, servando buon iuditio di ogni prestazione.

Lode a Dio, al nostro re Supremo, alla nostra signora Elisabetta, regina d’Ungheria, al signor conte Giovanni, con la protezione e benedizione della nostra guida San Giorgio

Io Nicola de Vito sindaco di Gravina

 

Gravina, 23 aprile 2016                                                                                                                                                                                   Fedele RAGUSO

 



[1]Il testo del cerimoniale di chiusura della Fiera San Giorgio del sindaco è stato stilato dagli storici Fedele RAGUSO e Marisa D’AGOSTINO con l’ausilio delle fonti angioine coeve. Gli autori si riservano tutti i diritti, con il divieto assoluto di ogni riproduzione ed uso arbitrario.

SANTUARIO - GROTTA DI S. MICHELE

Il Santuario di S. Michele fu una grande spelonca naturale ove trovarono sede idonea culti pagani e cristiani, ove trovò sede idonea il di culto micaelico importato dai Longobardi da Monte Sant’Angelo. La grotta fu realizzata dalla erosione delle acque e ampliata da faticoso  e certosino lavoro di scavo tra V - VI sec.. Forse di origine proto-cristiana, il sito fu l’epicentro della vita religiosa del territorio gravinese. Ferdinando Ughelli (curatore dell’opera Italia Sacra), scrisse  che fin dall’ 876 d.C. in Gravina si trovava una chiesa dedicata a S. Angelo “decorata dell’infola vescovile”, sita sul primo centro di aggregazione detto “ Fundus vitus”.

La vecchia spelonca carsica divenne una stupenda basilica a cinque navate tra VIII - IX secolo, quando accolse i culti dei tre Arcangeli, della Vergine Maria, di San Paolo.  Cavata nel tufo granulare su roccia dura, si protende sull’orlo della sponda sinistra della “gravina”. L’acceso si snoda  attraverso antri e corridoi intercalati da grossi pilastri,  che si restringono in prossimità dell’ingresso nel grande impianto basilicale.  La volta è piana e monolitica, il piano di calpestio è di roccia compatta, i 14 pilastri monolitici a pianta quadrata dividono il grande ambiente in cinque navate. Il presbiterio è largo quanto la chiesa, è sopraelevato di un gradino, consta di cinque absidi, di cui tre presentano altari latini, rifatti e nobilitati nel 1690 a spese di monsignor Marcello Cavalieri. L’altare centrale è dedicato a S. Michele Arcangelo, i due laterali agli arcangeli, S. Gabriele e S. Raffaele. La cripta-chiesa risulta un manufatto complesso con spiccata planimetria a ventaglio, inserito in un groviglio di grotte adiacenti, sovrastanti e sottostanti, utilizzati variamente e in particolare per cimitero, come si vedeva fino ad alcuni anni fa in una grotta, che si apre sulla parete di destra (guardando gli altari), adibita ad ossario con lapide commemorativa dell’eccidio perpetrato dai Saraceni nel 999. Sulla stessa parete un’altra porta, ora murata, immetteva in altre grotti.

Gravina con il grande e rinomato santuario-grotta  tappa privilegiata, fin dalla fine dell’alto medioevo, per i pellegrini che transitavano  per e da Gerusalemme. Essi, infatti, lasciarono traccia del loro passaggio con le impronte delle mani sulle pareti  di accesso al luogo sacro. 

A Gravina il culto attecchì e si radicò bene, perché l’Arcangelo fu il difensore, il combattente delle forze del male, quelle che sotto forma di calamità  naturali  colpirono anche i cittadini gravinesi, che non si staccarono dalla sua immagine e dal suo grande protettorato. Tanto lo dimostra la dedicazione di un’altra grotta all’Angelo o all’Arcangelo, sita sotto la chiesa  di S. Maria della Stella, sulla ripa opposta della «gravina», come pure la presenza  di benefici e altari in cattedrale e altre chiese di Gravina.

Alcune testimonianze scritte tramandano  che la chiesa-grotta  di S. Michele fu la prima Cattedrale di Gravina, che conferì al vescovo il titolo di Episcopus basilicae Sancti Michaelis et abbas Sancti Donati. Monsignor Guido, vescovo di Gravina, con detto titolo consacrò il 29 settembre 1099, la chiesa del monastero di S. Michele di Montescaglioso, rientrante nell’arcidiocesi  di Acerenza, di cui era suffraganea. Già nel 1080, Umfrido d’Altavilla, normanno signore della città di Gravina, concesse numerosi beni in favore dell’abbazia benedettina dedicata a S. Angelo del Frassineto, oggi in contrada Fontana S. Angelo, per suffragio delle anime dei genitori ivi sepolti.

Una visita pastorale tramanda che nella cripta esisteva “una fonte di acqua viva”, ritenuta miracolosa. Essa era nota come “fontana di S. Michele di Gravina”, a cui attribuirono eventi miracolosi, fino a quando una donna “ impura meretrit” discinta e quasi nuda si accostò ballando e determinò  l’arresto della sorgente, di cui si nota solo il solco dell’acqua che defluiva.

La cripta micaelica in origine fu tutta  affrescata sia sulle pareti che sui pilastri, come nelle cinque absidi, con figure di santi, già compromesse dalla metà del sec. XVI. Oggi resta ben poco del ciclo pittorico: tracce su alcuni pilastri e sulla parete di fondo a sinistra. Per chi entra ci sono tracce e frammenti di intonaco con colori e profili di volti, per niente definibili. Si sa che esisteva , anche, una raffigurazione della B. Maria Vergine,  detta di Carusino, di Montevergine, di Monteforte (sono tre vergini distinte); di S. Michele al centro, S. Antonio di Padova a destra, S. Margherita e S. Angelo, entrambe a sinistra. Dalla testimonianza del 1629 di Una certa “suor Rosa”, terziaria dell’Ordine di S. Agostino, responsabile della cripta-chiesa,  tramandò che c’era l’affresco di un Arcangelo “alato et ornato” sull’altare più antico; ma c’erano anche S. Monica, S. Lorenzo Martire e il salmista David.

Oggi, nella prima abside a sinistra, si vedono affreschi (di epoca (XII-XII secolo)   con chiare immagini del Cristo pantocratore al centro,  di S. Michele a destra, di S. Paolo a sinistra. Sulla seconda colonna della navata di sinistra restano tracce di un affresco raffigurante la Madonna col Bambino. La Crocifissione  con tre figure femminili sul pilastro frontale all’altare  di S. Michele è un affresco di epoca più tarda, di buona fattura, attribuibile al sec. XVII.

Quella grotta-santuario fu, senza ombra di dubbio uno dei centri più antichi di aggregazione e diffusione locale del cristianesimo, anche se le prime notizie documentate risalgono alla fine del Cinquecento. Infatti, a partire da quell'epoca, nelle varie visite pastorali si parla di questa chiesa, in cui si cele­brava la festa dell'otto maggio con una solenne processione, mentre per il resto dell'anno non era officiata.  Il culto micaelico a Gravina ricevette  grande impulso con il vescovo domenicano Marcello Cavalieri (1690- 1705), molto devoto all'Arcangelo. Egli, infatti,  fece restaurare la chiesa e realizzare gli altari laterali dedicati agli altri due arcangeli, Gabriele e Raffaele. con un altro dell'angelo custode: sull'altare centrale fu messa la statua di san Michele, in pietra del Gar­gano, fatta realizzare dal vescovo (forse il 1698).

 

Gravina 28 aprile 2016                                  Fedele RAGUSO

Conclusione della Fiera - Cerimoniale

La Fiera San Giorgio sin dal 1294, quando fu ripristinata da Carlo II d’Angiò, fu garantita e regolamentata da atti giuridici accompagnati da cerimoniali feudali, che garantivano l’organizzazione, lo svolgimento delle attività commerciali, la conclusione con le parate dei nobili e feudatari, obbligati dal sovrano a cimentarsi in tornei e spettacoli consuetudinari.

Dopo il privilegio che autorizzava il mercato fieristico e lo favoriva  con benefici fiscali e protezione militare e giudiziaria si passò agli atti di organizzazione e attuazione con la nomina del MASTRO DI FIERA. Questi veniva investito con apposita cerimonia con l’affidamento di ogni responsabilità. Il mastro era un governatore delle mercature generali, con alcuni mesi di anticipo o, addirittura, il giorno della chiusura della Fiera in atto, per consentire la buona organizzazione della edizione successiva..

La Fiera, dunque, era preceduta dal cerimoniale per la investitura del Mastro di Fiera, che veniva assegnata ad un mastro giurato, esperto di diritto amministrativo, commerciale, giudiziario, di ordine pubblico. Era una persona di fiducia del feudatario, non abitante della città, che doveva riscontrare il beneplacito del sindaco, degli eletti (consiglieri comunali) dell’intera Università degli uomini di Gravina (oggi diremmo un difensore civico con prerogative commissariali).

Il giorno stabilito, il conte riceveva presso la sua dimora il mastro giurato prescelto, che giungeva con tutti coloro che l’avrebbero aiutato prima e durante i giorni di fiera, con il Capitano della città e i suoi militi, con una rappresentanza di nobili e boni homies,  che facevano da testimoni e garanti. Il Mastro di fiera si accompagnava con un notaio, con un giudice, con i camerlenghi (con tale titolo si designava colui che amministra il tesoro e i beni delloStato e l'amministrazione da lui retta),  con un banditore, con altri esperti di mercatura e parate equestri di sua fiducia, che lo avrebbero aiutato alla organizzazione, allo svolgimento e alla realizzazione delle operazioni di mercatura e di quant’altro era previsto per consuetudine o per nuovi ordini del sovrano. Egli il giorno 17 del mese di aprile, dopo la lettura del privilegio istitutivo della fiera,  riceveva le chiavi della città dalle mani del sindaco e da quel momento e per gli otto giorni successivi assumeva i pieni poteri: del mero e misto imperio, del diritto di lancia e di spada, delle lettere arbitrarie. Il giorno 25 di aprile all’ora del tramonto si recava presso la piazza antistante il castello o dimora del feudatario, seguito dai suoi collaboratori, scortati dal Capitano e militi. Lì veniva ricevuto dal feudatario, dal sindaco, dalla popolazione,  e ad alta voce dava rendiconto delle giornate fieristiche,  ringraziava il sovrano, il feudatario i cittadini di Gravina  e consegnava le chiavi nelle mani del sindaco.

Il sindaco, a sua volta, con articolato e precisa relazione  esprimeva la valutazione generale sull’andamento della fiera, poi, prodigava elogi e ringraziamenti, auspicando e supplicando il sovrano tramite il feudatario e del mastro di fiera  nuovi benefici regii per la ventura edizione fieristica. Infine, dopo aver ripreso le chiavi (simbolo di delega assoluta e consegna della città) dichiarava chiuso l’evento fieristico, innalzando lode a San Giorgio, che aveva favorito il gran mercato, aveva protetto uomini e animali, che doveva proteggere tutti i mercanti sino al rientro alle loro residenze abituali.

 

Gravina 23 aprile 2016                       Fedele RAGUSO