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DAGLI OLIVASTRI ALL’ORO GIALLO. UNA LUNGA STORIA AGRICOLA ED ECONOMICA

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I Pugliesi, nostri intelligenti antenati, seppero riconoscere il prezioso olivastro con i suoi prelibati frutti (le olive piccole dai sapori diversi, a seconda dei momenti della raccolta). Le olivastre furono mangiate e trasformate per ottenere anche il prezioso "oro giallo".

La storia dell'Olivicoltura in Puglia ha origini antichissime e, ancor prima, della colonizzazione dei popoli orientali, degli Egizi, dei Fenici e dei Greci. I colonizzatori arricchirono le conoscenze dell’addomesticazione degli olivastri, la trasformazione delle olive in prodotti medicinali, cosmetici, alimentari, combustibili.

Quando le comunità preistoriche e antiche vennero a contatto con altri colonizzatori o con altre popolazioni vicine e lontane, conobbero i processi degli innesti degli olivastri per ottenere frutti più buoni e redditizi. Successivamente si praticò la riproduzione per talee e la migliore addomesticazione con gli innesti di piante più idonei a climi freddi o aridi e con frutti diversificati per la produzione di olive per alimento, per oli, per cosmetici, per medicinali (creme, unguenti, tisane, sciroppi).

Non è il caso di dar primogeniture campanilistiche: sii può affermare che in ogni luogo della Puglia, ove più ove meno si conobbe il frutto naturale "olivastra" degli “OLIVASTRI” presenti in boschi e selve come componente della flora mediterranea. Senza ombra di dubbio, bisogna dire che le comunità delle coste marine, con climi più miti e favorevoli agli ulivi, sfruttarono molto e bene il naturale Olovastro e i suoi frutti maturando una olivicoltura alquanto redditizia (inutile stilare un elenco di città olivicoltrici del Nord, del Centro e del Sud della Puglia).

Contadini e pastori che popolavano il territorio di Gravina fruirono ampiamente delle olive selvatiche nella loro alimentazione. Come altri prodotti, conobbero i derivati che usarono come medicina, come materia combustibile ed infine come liquido per cuocere e condire altri prodotti alimentari. Inventarono strumenti e metodi rudimentali per tritare olive, come facevano per cereali e legumi, realizzarono recipienti per la conservazione a breve e lunga durata (emblematici gli – ogliaruli - fatti con le corna dei buoi, infrangibili e indelebili).

I Gravinesi, dunque, conobbero gli olivastri e si cibarono di olivastre e, col tempo, svilupparono anche l'olivocoltura. A questo proposito ci piace riportare una importante nota storico-economica attendibilissima riguardante l'olivocoltura tramandataci dal canonico don Tobia Stamelluti, vissuto nel XIX secolo. Egli nel 1870 scrisse (nelle sue "Notizie storiche sulla città di Gravina" stilate per il "Dizionario geografico del Regno di Napoli", curato da Filippo Cirelli):  “ Le piantagioni degli ulivi si andavano incrementando e le quantità di olive, che già si raccoglieva, aveva fatto nascere tre aziende olearie con macine e torchi”.

A questo proposito formulo l’augurio per i concittadini Gravinesi di saper cogliere l’esempio dei “Camminamenti tra gli alberi degli ulivi” per portare sulle 7 colline che circondano la “CITA’ DEL BOTROMAGNO” la popolazione giovane e meno giovane di Gravina e i tanti turisti che accorerebbero per godere dei panorami stupendi e delle vestigia storiche del territorio e del lavoro intelligente degli indigeni agricoltori. Quelle colline (Pietramagna, Castello, Guardialto, Albanello, Serra Carvotta-Serra di Mezzo, Pendino San Girolamo, Vallone) ancora coperte ed ornate di oliveti conservano testimonianze antichissime dell’intelligenza dei Gravinesi: piante di frutti diversi, abitazioni rurali, manufatti per la vinificazione come palmenti all’aperto, muri a secco, terrazzamenti).

Nota a margine della denominazione “Oiva Bambina o Bombina”. Si è attribuito una origine indigena o autoctona gravinese e si è, oltretutto, ipotizzato (meglio dire, azzardata) una denominazione (o giustificazione fitofilologica) poco consona e proponibile. Infatti le denominazioni dei prodotti naturali e derivati si attribuivano e si attribuiscono tenendo conto del luogo di nascita o provenienza, delle caratteristiche fitomorfologiche, dell’adeguata fitonimia e, giammai, come prodotto esclusivo per particolari beneficiari, nel caso di specie - i bambini -  (come denominazione onomatopeica alimentare). L’accostamento del termine bambina come denominazione starebbe meglio se si consideri la - dimensione ridotta e rotondeggiante – che la diversifica dalle altre qualità di olive prodotte nel territorio gravinese (coratina, cellina, oliarola, leccina). Altra probabile congettura: si potrebbe fare l’accostamento del nome “Bombina” per colore e pezzatura della corteccia simile alla pelle dorsale della rana “Bombina”. “Una questione necessaria ed indispensabile a definirsi!”

 

Fedele RAGUSO

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