Storia, Uomini e luoghi

Disabili: cent’anni di Vite da scarto

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«Per non dimenticare» è una frase fin troppo abusata quando si vuole commemorare un evento connotato da un profondo senso di ingiustizia; eppure non ci sono parole più appropriate quando la memoria è rivolta alle «Vite da scarto» delle persone con disabilità, vittime di quel fondamento razziale del regime nazista che ne determinò lo sterminio prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Nel 70esimo anniversario della Liberazione, un convegno a Roma riporta in luce quei temi proponendone la memoria come momento necessario di aggregazione e ripartenza nel mondo frastagliato, a tratti diviso, della disabilità.

 

In un recente convegno organizzato su questi temi a Roma dalla Cgil con il titolo Vite da Scarto sono stati evidenziati alcuni aspetti che inducono ad una riflessione: pochi sanno che l’emarginazione e l’eliminazione dei disabili iniziò ben prima del nazismo e della seconda guerra mondiale, con la diffusione al massimo livello accademico delle teorie su uno stato razziale biocratico, già alla fine del XIX secolo.

Su queste basi poi si innestò nel 1933 la Legge per la prevenzione di nuove generazioni affette da malattie ereditarie che prevedeva la sterilizzazione di chi fosse affetto da patologie ereditarie, schizofrenia ed alcolismo, tra le altre. Complessivamente fu sterilizzato – prima della guerra- lo 0,5% della popolazione tedesca dell’epoca, (375 mila individui) anche se i dati non sono definitivi o completi.

Nella seconda fase, ritenendo insufficiente la sola sterilizzazione l’operazione sempre sotto controllo medico, portò all’uccisione di circa il 20% dei disabili presenti negli istituti di cura, per un totale approssimato di 70 mila vittime.

Formalmente il programma fu dichiarato concluso nel 1941 ma l’uccisione di disabili proseguì anche oltre, portando quindi il totale delle vittime ad una cifra che si stima intorno ai 200 mila individui. Colpisce che si trattasse di un programma perfettamente legale quasi voluto, approvato e giustificato attraverso il prisma della “morte pietosa”.

Ora, una serie di circostanze ha condannato questa storia ad un oblio dal quale stenta ad uscire ancora oggi, a settant’anni dalla liberazione del campo di Auschwitz e dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, non ultimo il fatto che gran parte del personale medico non ha mai subito le conseguenze delle proprie azioni aberranti.

E’ un qualcosa che se possibile discrimina ancora una volta queste vittime, negando loro la dignità della memoria e di un riconoscimento che dica al mondo l’enormità di questa misconosciuta prova generale: è negazione che ha i suoi effetti anche oggi, in un mondo che certamente ha fatto passi da gigante da allora, ma che sta pericolosamente regredendo.

Non vi è chi non veda infatti come il mondo della disabilità abbia sempre stentato a trovare un punto di unità, finendo per ingaggiare lotte intestine che sono controproducenti oltre che del tutto contrarie allo spirito della Convenzione sui diritti delle Persone con Disabilità, del 2006. Queste divisioni, derivano con tutta probabilità dalla inconsapevolezza di un pezzo di storia, che al contrario dovrebbe costituire la radice e il fondamento di un sentimento di comunità, capace di incidere sulle agende politiche e sociali e di entrare per davvero nella stanza dei bottoni.

 

 

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